Non si inventa nulla. I numeri, per usare una frase fatta, parlano da soli. E di numeri ne abbiamo a bizzeffe, basta fare qualche ricerca sullo stato dell’arte del piccolo commercio in Italia e i risultati della ricerca fioccano come neve sullo schermo del computer.
Oggi, un articolo fra tutti.
Lo leggo su repubblica.it, ed è dedicato ai numeri emersi da uno studio dell’Ufficio Economico Confesercenti, elaborato a partire dai dati Istat e dalle rilevazioni dell’Osservatorio su Commercio e Turismo dell’associazione.
E’ un articolo del 30 agosto 2017, e fa esplicito riferimento alla “grande recessione – scoppiata a fine agosto di dieci anni fa“.
Ecco i numeri.
“Sono state (…) le imprese attive nel commercio di tessili, abbigliamento e calzature a pagare lo scotto più alto: dal 2007 se ne contano circa 40mila in meno. Giù anche i negozi di ferramenta e materiali per costruzioni (-9.834) e giornali (-3.926), mentre, tra i dati positivi, si segnala l’aumento del numero di tabaccherie (+4.749) e dei negozi di informatica e telecomunicazioni (+2.216) e, soprattutto, delle attività commerciali fuori dai mercati e dai negozi: le imprese di commercio porta a porta, online, e vending machine sono oltre 18mila in più, con una crescita di oltre l’82,5%. A scendere invece, nonostante la crescita degli ultimi anni, anche il numero di ambulanti (-17.587). A dare un colpo al commercio, oltre la recessione, è stato anche il regime di deregulation dei giorni e degli orari di apertura introdotto a partire da gennaio 2012 dal Governo Monti“.
Quasi superfluo ribadirlo. Visto che questo sito e il progetto di cui fa parte sono dedicati proprio al rilancio del piccolo commercio nei centri urbani, non posso che essere d’accordo al cento per cento con Patrizia De Luise, presidente della Confesercenti, quando afferma che:
“Perdere le attività di vicinato sarebbe un danno per tutti, non solo per i commercianti: i negozi sono infatti un elemento fondamentale per la qualità della vita dei cittadini e per il valore turistico e la fruibilità del territorio“.
Ora però mi spiego meglio, e dico (di nuovo) la mia.
Il negozietto sotto casa, oltre alla comodità, fa vivere la strada, crea rapporti umani e fa rilasciare lo stress di prendere il bus o l’auto, cercare il parcheggio se non ci sono abbastanza posti come nella mia zona molto stretta, prendere il carrello, girare nel supermercato per scegliere il prodotto che cerchiamo e che magari hanno appena rimosso o magari spostato in altri scaffali.
E poi fare code alle casse, prendere il bus o l’auto e ritornare a casa, riordinare la spesa mentre è già tardi per il tempo perso nel traffico o al supermercato.
Quando sotto casa si compra il necessario e si rientra per cucinarlo, non c’è niente da riordinare, niente traffico, in più si chiacchiera con il commerciante del più e del meno oppure se si ha confidenza si raccontano i dispiaceri e ci se ne libera, insieme a una bella fetta di stress.

Avremmo così in futuro uomini e donne meno depressi, meno stressati. E avremmo le strade piene di vita. Il proprietario del bar all’angolo chiacchiera con il vicino panettiere mentre il macellaio assieme al formaggiaio lo incitano a fare i caffè.
Scene d’altri tempi, eh?
Era un bel mondo, dove tutti erano in amicizia e clienti l’uno dell’altro…
Perché non riaprire in chiave moderna il vociare agli angoli della strada?
Si, da tempo mi sono accorta che sono aumentati in Italia:
Pub, Bar, Ristoranti, Tavole calde e Gelaterie.
Sono diminuiti invece a dismisura: abbigliamento, calzature, borse, cappellai e ombrelli, bomboniere, fotografi e articoli annessi, ferramenta, coltellerie, drogherie, erboristerie, negozi di biancheria per la casa…
Molti negozi per potersi salvare economicamente si sono trasformati. Ho un’amica che vendeva solo abbigliamento ora vende di tutto: calzature e borse con tutti gli accessori, dai guanti con sciarpe o scialli, ai portafogli, alla bigiotteria, e nel reparto uomo qualche articolo maschile, tipo pipa con accessori, occhiali, orologi, cravatte, coltelli a serramanico.
Tutto si sta mescolando. E’ possibile che si stia creando uno stile diverso proponendo il pacchetto unico “cappello, sciarpa, cravatta o collier, cappotto con il tailleur o vestito, scarpe adeguate“, insomma proponendo un set per fare in modo che la persona esca dal negozio provvista di tutto senza aver il problema di ricercare in tanti negozi diversi quello che le serve per l’occasione desiderata o semplicemente per il suo casual.
Rimangono i negozi specializzati tipo calzature per piedi con problematiche, l’ottico con occhiali da vista, parrucchieri, anche qui il mio amico Paolo parrucchiere ha nel suo negozio un manichino che sfoggia i vestiti che vende sua moglie nel negozio di fronte.
E’ l’ora dei bazar?
Ne deduco quindi che gli articoli commerciali non sono più raccolti in serie merceologica per negozio ma sono mescolati in tutti i negozi, creando così una dispersione dei generi. E poi, a seconda del negozio non c’è spazio per una grande scelta, un po’ come se obbligassero i clienti a prendere quello che c’è.
Io stessa ho girato per trovare un paio di scarpe di mio gradimento, purtroppo vedo sempre meno negozi di calzature e le scarpe che sono in vendita nei negozi di abbigliamento non mi piacciono. Mi restano da vedere i mercati, ma anche fra i banchi la scelta è sul medio basso.
Per quanto riguarda la ristorazione e il turismo sono dell’idea che oggi come oggi i giovani lavoratori a partire dai trent’anni hanno vissuto l’esperienza dei genitori che sono stati dei grandi risparmiatori, ma che in realtà – con la vita sempre più cara e le tasse pure, non parliamo poi delle Banche – decidono di vivere diversamente, spendendo quello che guadagnano senza pensare al futuro difficile perché a ben vedere il difficile è già nel presente.
Secondo questo paradigma, la generazione dei trentenni punta sul turismo.
L’Italia, si sa, è un paese di forte attrazione turistica e i giovani cercano di dare il massimo a chi viene nel nostro bel paese.
Nel settore ci sono molte compagnie specializzate come ad esempio la compagnia di AirbnB che prepara gli Hostes a migliorarsi e quindi a migliorare la città.
E siamo di nuovo al cane che si morde la coda.
Sì, va bene i ristoranti, gli alberghi, i Bed&Breakfast, arte e musei; ma al di là di questi esercizi e luoghi pubblici, gli altri generi di negozi dove si situano?
- I turisti, dov’è che comprano i souvenir?
- Le scarpe italiane?
- La moda italiana?
- I prodotti tipici della regione?
Come si fa la pubblicità alla città se non si hanno i prodotti locali?
Forse con le foto o su Internet, si annusano e si possono sentire i profumi del luogo, poi si mordono e si sentono gli aromi dei prodotti alimentari tipici, mangiando le foto per intero apprezzeremo il gusto del gelato al limone o dei maccheroni alla diavola…
Chissà un giorno forse sarà così.
Visto che sono ancora lontana da questa nuova forma sensitiva, vorrei vivere una vita piena di sensi & sensazioni, di amicizie in una città dinamica, gioiosa, collaborativa, compatta, solidale…
Insomma tutti per uno uno per tutti…
Ti manca qualcosa? Non ti preoccupare, scendo di sotto, te la prendo e te la porto. Tu con la febbre non uscire, pensa a curarti… Ecco due minuti dopo… sono qui a darti quello che ti serve…
Semplice no?
Più semplice ancora è affacciarsi alla finestra e trovare sempre qualcuno che ti vede e ti senta e sia pronto a darti sostegno nel momento del bisogno.
Magari ci sarebbero pure meno omicidi e meno furti.
Grazie per il sostegno,
Clara